Svendo tutto
di Miguel Calatayud
da ADISTA
Africa subsahariana: grandi estensioni di terra in mano a imprese straniere
Tratto dal quotidiano spagnolo El País 29 ottobre 2011. Titolo originale: África está en venta
Immagina che la Spagna ceda la gestione di un territorio delle dimensioni dell’Estremadura a un’impresa straniera. O che ci siano spagnoli che soffrono la fame mentre compagnie straniere producono cibo in Spagna che però esporteranno nei loro Paesi d’origine. Sembra difficile da credere ma questa è la situazione che si sta verificando in alcuni Paesi dell’Africa subsahariana...(..)
Dal 2001, i governi dei Paesi in via di sviluppo hanno affittato, venduto o stanno negoziando la cessione di 227 milioni di ettari di terre, circa 2,27 milioni di chilometri quadrati, secondo le cifre del Land Matrix Partnership, un gruppo di accademici, ricercatori e ong citati da Oxfam in un rapporto pubblicato in questi giorni. La maggior parte di questi contratti, che hanno coinvolto per lo più investitori stranieri, è stata firmata a partire dal 2008. E, da allora, più del 70% di questi contratti è stato sottoscritto nell’Africa subsahariana, secondo quanto riporta la Banca Mondiale.
Mozambico, Sud Sudan, Etiopia, Zambia, Liberia, Madagascar… inclusi piccoli Paesi come l’Uganda stanno cedendo grandi estensioni di terra a ditte di origine straniera. Nella maggior parte dei casi, questi acquisti comportano l’espulsione delle comunità locali dalle terre che abitano. Terre che poi vengono sfruttate con fini commerciali come la produzione di biocarburanti o di olio di palma, o utilizzate per coltivare generi alimentari di base come cereali o riso che vengono poi esportati in altri Paesi. Una situazione di cui si percepisce ancora di più la gravità quando si pensa che in alcuni di questi Paesi – come il caso del Sud Sudan e dell’Etiopia – parte della popolazione necessita di aiuti umanitari continui per non morire di fame.
È il 2008 l’anno in cui queste vendite raggiungono il picco. Un incremento motivato, secondo gli esperti, dall’aumento del prezzo degli alimenti. Ed è stato a partire da allora che grandi investitori privati, per lo più occidentali o Paesi come la Cina, l’India, l’Arabia Saudita, il Kuwait e la Corea del Sud, si sono lanciati nell’acquisto di terre all’estero nelle quali produrre cibo cui dare un uso commerciale.
Sembra che questi investitori abbiano incontrato i bocconcini più appetitosi nell’Africa subsahariana. Una zona che comprende enormi estensioni di terra coltivabile non sfruttate. Così, lasciare la loro gestione a ditte straniere poteva sembrare, inizialmente, una soluzione positiva. Tuttavia, quello che avrebbe potuto essere un percorso verso la modernizzazione tecnologica e lo sviluppo del lavoro locale, in pratica non sta andando in alcun modo a beneficio delle comunità perché i governi non si stanno dimostrando in grado di negoziare queste cessioni.
I pochi studi condotti in merito mostrano che, in pratica, quasi tutti i casi di cessione di terreno sono finiti molto male per le popolazioni locali. È questo il caso in cui si usa l’espressione accaparramento di terre: ma in cosa consiste questo fenomeno? «L’accaparramento di terre è la sottrazione di terre rurali da parte di investitori internazionali per destinarle ad uso commerciale, negando al contempo l’accesso a queste terre alle persone che tradizionalmente le usavano per vivere», riassume Michael Ochieng Odhiambo, autore del rapporto “Pressioni commerciali sulla terra in Africa” per la Coalición Internacional de las Tierras.
«Si chiama accaparramento precisamente perché non si consultano le persone che normalmente usano questa terra e non si tengono in considerazione i loro interessi », aggiunge Odhiambo, che è anche avvocato ambientalista e direttore esecutivo dell’Istituto per la Risoluzione dei Conflitti per le Risorse, con sede in Kenya.
Le ditte internazionali che investono in terre in Africa rifiutano questa terminologia affermando che le loro azioni contribuiscono allo sviluppo di zone non produttive. La compagnia britannica New Forests Company, che Oxfam accusa di aver provocato l’espulsione forzata di 20mila persone in Uganda, si descrive in un comunicato inviato a questo quotidiano come «una compagnia con una traiettoria impeccabile in investimenti sociali e in sviluppo, che nella sua breve vita non solo ha creato più di 2mila posti di lavoro in remote comunità rurali in Uganda, ma ha anche incrementato l’accesso alla sanità, all’educazione, all’acqua potabile e al combustibile». Secondo questi investitori, l’acquisizione di grandi estensioni di terra in Africa non solo avrebbe conseguenze positive ma sarebbe necessaria per contribuire allo sviluppo sociale ed economico di questi Paesi.
«Nessuno nega che si potrebbe fare un uso migliore di queste terre e nessuno suggerisce che investire in terra sia qualcosa di negativo in sé, la questione qui è il procedimento che si segue», risponde Odhiambo. «Normalmente si ignorano i diritti delle comunità indigene il cui sostentamento dipende da queste terre. Se l’obiettivo è di portare benefici alle popolazioni locali – aggiunge –, allora queste persone dovrebbero essere incluse nelle discussioni e nelle decisioni, affinché i loro interessi siano tenuti in considerazione». Tuttavia, in molte occasioni, quelli che finiscono a lavorare nelle nuove piantagioni non provengono dalle comunità locali. Odhiambo sottolinea che, in alcuni casi, le ditte cinesi portano i loro lavoratori, allontanando gli agricoltori locali.
Secondo dati della Banca Mondiale, l’Africa subsahariana è la zona del pianeta che ha più chilomentri quadrati coltivabili non sfruttati o non sufficientemente produttivi. Ma gli esperti vedono anche un’altra ragione per la quale la maggior parte degli acquisti di grandi estensioni di terre avviene in questa zona: governi corrotti o assenza di leggi e regole adeguate.
«Nessun Paese africano richiede per legge il consenso libero, informato e anticipato di coloro che vivono nelle terre prima che queste siano aggiudicate a un investitore. Sono pochi i requisiti sui quali si consulta la popolazione locale e, quando ci sono, la loro implementazione tende a essere al di sotto delle aspettative», afferma in un comunicato sui contratti di questo tipo Lorenzo Cotula, dell’Instituto Internacional para el Medio Ambiente y el Desarrollo. «Si sa molto poco sui termini esatti di queste transazioni di terra in Africa, visto che di solito avvengono a porte chiuse», aggiunge.
Il fatto che molti governi dell’Africa subsahariana non abbiano abbastanza credenziali democratiche e che esistano appena leggi che regolano le condizioni di lavoro, le conseguenze per l’ambiente o la proprietà della terra da parte delle comunità locali, sembrano contribuire allo speciale interesse che le terre africane suscitano tra imprese straniere e Paesi in rapida crescita.
Succede poi che nella maggior parte dei Paesi africani il padrone delle terre sia lo Stato, che non suole riconoscere il diritto consuetudinario che potrebbe riconoscere la proprietà delle terre alle comunità che le abitano e le lavorano da generazioni. «Fondamentalmente, si tratta di una questione di mal governo perché gli esecutivi di questi Paesi africani non rendono conto alla loro gente, non consultano le persone coinvolte, ci sono molti ufficiali governativi che intascano denaro con questi contratti…», prosegue Odhiambo. «E, al fine di mantenere questa situazione, questi governi non vogliono aprire alcun tipo di discussione su come porre in essere politiche e istituzioni adeguate».
Allora, se ci fossero le condizioni ideali, se le popolazioni locali fossero consultate e votassero, se i governi perseguissero l’interesse delle comunità e tutto il processo rispondesse a norme democratiche, in tal caso la cessione di grandi terre potrebbe essere una soluzione per sviluppare l’agricoltura africana e farla finita con la dipendenza dagli aiuti esterni?
«È che nella pratica questa ipotesi non si realizza. In quasi tutte le acquisizioni massicce che ci sono state non si sono tenuti per niente in considerazione questi requisiti», risponde, in linea con quanto mostrano i pochi studi che hanno analizzato questo tipo di contratti, José Antonio Osaba, consigliere generale del Foro Rural Mundial.
«Noi proponiamo una moratoria di 20 anni su queste acquisizioni affinché in questo lasso di tempo si possa dare priorità alla agricoltura familiare e nazionale destinata a produrre cibo per le popolazioni locali. E anche affinché si realizzi un’analisi più seria e approfondita di ciò che significano e di quali conseguenze hanno questi accaparramenti», spiega Osaba. «Che l’Africa che patisce la fame stia alimentando popolazioni di altri continenti è qualcosa di insolito», conclude.
Più moderato, Odhiambo crede che, ben fatte e con regolamenti adeguati, le cessioni di terre potrebbero essere parte della soluzione al problema della fame in Africa. «Sul piano internazionale, si dovrebbero stabilire degli standard che regolino tutte queste transazioni affinché possano realizzarsi correttamente».
Immagina che la Spagna ceda la gestione di un territorio delle dimensioni dell’Estremadura a un’impresa straniera. O che ci siano spagnoli che soffrono la fame mentre compagnie straniere producono cibo in Spagna che però esporteranno nei loro Paesi d’origine. Sembra difficile da credere ma questa è la situazione che si sta verificando in alcuni Paesi dell’Africa subsahariana...(..)
Dal 2001, i governi dei Paesi in via di sviluppo hanno affittato, venduto o stanno negoziando la cessione di 227 milioni di ettari di terre, circa 2,27 milioni di chilometri quadrati, secondo le cifre del Land Matrix Partnership, un gruppo di accademici, ricercatori e ong citati da Oxfam in un rapporto pubblicato in questi giorni. La maggior parte di questi contratti, che hanno coinvolto per lo più investitori stranieri, è stata firmata a partire dal 2008. E, da allora, più del 70% di questi contratti è stato sottoscritto nell’Africa subsahariana, secondo quanto riporta la Banca Mondiale.
Mozambico, Sud Sudan, Etiopia, Zambia, Liberia, Madagascar… inclusi piccoli Paesi come l’Uganda stanno cedendo grandi estensioni di terra a ditte di origine straniera. Nella maggior parte dei casi, questi acquisti comportano l’espulsione delle comunità locali dalle terre che abitano. Terre che poi vengono sfruttate con fini commerciali come la produzione di biocarburanti o di olio di palma, o utilizzate per coltivare generi alimentari di base come cereali o riso che vengono poi esportati in altri Paesi. Una situazione di cui si percepisce ancora di più la gravità quando si pensa che in alcuni di questi Paesi – come il caso del Sud Sudan e dell’Etiopia – parte della popolazione necessita di aiuti umanitari continui per non morire di fame.
È il 2008 l’anno in cui queste vendite raggiungono il picco. Un incremento motivato, secondo gli esperti, dall’aumento del prezzo degli alimenti. Ed è stato a partire da allora che grandi investitori privati, per lo più occidentali o Paesi come la Cina, l’India, l’Arabia Saudita, il Kuwait e la Corea del Sud, si sono lanciati nell’acquisto di terre all’estero nelle quali produrre cibo cui dare un uso commerciale.
Sembra che questi investitori abbiano incontrato i bocconcini più appetitosi nell’Africa subsahariana. Una zona che comprende enormi estensioni di terra coltivabile non sfruttate. Così, lasciare la loro gestione a ditte straniere poteva sembrare, inizialmente, una soluzione positiva. Tuttavia, quello che avrebbe potuto essere un percorso verso la modernizzazione tecnologica e lo sviluppo del lavoro locale, in pratica non sta andando in alcun modo a beneficio delle comunità perché i governi non si stanno dimostrando in grado di negoziare queste cessioni.
I pochi studi condotti in merito mostrano che, in pratica, quasi tutti i casi di cessione di terreno sono finiti molto male per le popolazioni locali. È questo il caso in cui si usa l’espressione accaparramento di terre: ma in cosa consiste questo fenomeno? «L’accaparramento di terre è la sottrazione di terre rurali da parte di investitori internazionali per destinarle ad uso commerciale, negando al contempo l’accesso a queste terre alle persone che tradizionalmente le usavano per vivere», riassume Michael Ochieng Odhiambo, autore del rapporto “Pressioni commerciali sulla terra in Africa” per la Coalición Internacional de las Tierras.
«Si chiama accaparramento precisamente perché non si consultano le persone che normalmente usano questa terra e non si tengono in considerazione i loro interessi », aggiunge Odhiambo, che è anche avvocato ambientalista e direttore esecutivo dell’Istituto per la Risoluzione dei Conflitti per le Risorse, con sede in Kenya.
Le ditte internazionali che investono in terre in Africa rifiutano questa terminologia affermando che le loro azioni contribuiscono allo sviluppo di zone non produttive. La compagnia britannica New Forests Company, che Oxfam accusa di aver provocato l’espulsione forzata di 20mila persone in Uganda, si descrive in un comunicato inviato a questo quotidiano come «una compagnia con una traiettoria impeccabile in investimenti sociali e in sviluppo, che nella sua breve vita non solo ha creato più di 2mila posti di lavoro in remote comunità rurali in Uganda, ma ha anche incrementato l’accesso alla sanità, all’educazione, all’acqua potabile e al combustibile». Secondo questi investitori, l’acquisizione di grandi estensioni di terra in Africa non solo avrebbe conseguenze positive ma sarebbe necessaria per contribuire allo sviluppo sociale ed economico di questi Paesi.
«Nessuno nega che si potrebbe fare un uso migliore di queste terre e nessuno suggerisce che investire in terra sia qualcosa di negativo in sé, la questione qui è il procedimento che si segue», risponde Odhiambo. «Normalmente si ignorano i diritti delle comunità indigene il cui sostentamento dipende da queste terre. Se l’obiettivo è di portare benefici alle popolazioni locali – aggiunge –, allora queste persone dovrebbero essere incluse nelle discussioni e nelle decisioni, affinché i loro interessi siano tenuti in considerazione». Tuttavia, in molte occasioni, quelli che finiscono a lavorare nelle nuove piantagioni non provengono dalle comunità locali. Odhiambo sottolinea che, in alcuni casi, le ditte cinesi portano i loro lavoratori, allontanando gli agricoltori locali.
Secondo dati della Banca Mondiale, l’Africa subsahariana è la zona del pianeta che ha più chilomentri quadrati coltivabili non sfruttati o non sufficientemente produttivi. Ma gli esperti vedono anche un’altra ragione per la quale la maggior parte degli acquisti di grandi estensioni di terre avviene in questa zona: governi corrotti o assenza di leggi e regole adeguate.
«Nessun Paese africano richiede per legge il consenso libero, informato e anticipato di coloro che vivono nelle terre prima che queste siano aggiudicate a un investitore. Sono pochi i requisiti sui quali si consulta la popolazione locale e, quando ci sono, la loro implementazione tende a essere al di sotto delle aspettative», afferma in un comunicato sui contratti di questo tipo Lorenzo Cotula, dell’Instituto Internacional para el Medio Ambiente y el Desarrollo. «Si sa molto poco sui termini esatti di queste transazioni di terra in Africa, visto che di solito avvengono a porte chiuse», aggiunge.
Il fatto che molti governi dell’Africa subsahariana non abbiano abbastanza credenziali democratiche e che esistano appena leggi che regolano le condizioni di lavoro, le conseguenze per l’ambiente o la proprietà della terra da parte delle comunità locali, sembrano contribuire allo speciale interesse che le terre africane suscitano tra imprese straniere e Paesi in rapida crescita.
Succede poi che nella maggior parte dei Paesi africani il padrone delle terre sia lo Stato, che non suole riconoscere il diritto consuetudinario che potrebbe riconoscere la proprietà delle terre alle comunità che le abitano e le lavorano da generazioni. «Fondamentalmente, si tratta di una questione di mal governo perché gli esecutivi di questi Paesi africani non rendono conto alla loro gente, non consultano le persone coinvolte, ci sono molti ufficiali governativi che intascano denaro con questi contratti…», prosegue Odhiambo. «E, al fine di mantenere questa situazione, questi governi non vogliono aprire alcun tipo di discussione su come porre in essere politiche e istituzioni adeguate».
Allora, se ci fossero le condizioni ideali, se le popolazioni locali fossero consultate e votassero, se i governi perseguissero l’interesse delle comunità e tutto il processo rispondesse a norme democratiche, in tal caso la cessione di grandi terre potrebbe essere una soluzione per sviluppare l’agricoltura africana e farla finita con la dipendenza dagli aiuti esterni?
«È che nella pratica questa ipotesi non si realizza. In quasi tutte le acquisizioni massicce che ci sono state non si sono tenuti per niente in considerazione questi requisiti», risponde, in linea con quanto mostrano i pochi studi che hanno analizzato questo tipo di contratti, José Antonio Osaba, consigliere generale del Foro Rural Mundial.
«Noi proponiamo una moratoria di 20 anni su queste acquisizioni affinché in questo lasso di tempo si possa dare priorità alla agricoltura familiare e nazionale destinata a produrre cibo per le popolazioni locali. E anche affinché si realizzi un’analisi più seria e approfondita di ciò che significano e di quali conseguenze hanno questi accaparramenti», spiega Osaba. «Che l’Africa che patisce la fame stia alimentando popolazioni di altri continenti è qualcosa di insolito», conclude.
Più moderato, Odhiambo crede che, ben fatte e con regolamenti adeguati, le cessioni di terre potrebbero essere parte della soluzione al problema della fame in Africa. «Sul piano internazionale, si dovrebbero stabilire degli standard che regolino tutte queste transazioni affinché possano realizzarsi correttamente».
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